Il paesaggio ed il territorio. La fotografia che vorremmo oggi
Lewis Hine, John Howell, 9 anni, Indianapolis, ago 1908 - courtesy Dionisio Gavagnin
Strana vita quella della fotografia, malleabile strumento tecnico con una identità poliforme e polivalente, adatta a tutti gli usi: nelle mani dell’economia essa è un potente strumento di persuasione (al lavoro, al consumo, all’investimento); in quelle della ideologia, di slancio, di elusione, di controllo, di illusione.
In quali altri mani? Dico: della scienza, e dell’arte: o, meglio, delle due cose insieme.
Perché insieme? Non si era detto che scienza e arte fossero due percorsi paralleli della conoscenza umana, talvolta giudicati inconciliabili, anzi, nemici?
Ma, è sempre stato così?
Non è qui il caso di ripercorrere, anche solo en passant, la lunga storia dell’avvicendarsi al potere delle classi sociali che hanno governato, nei cinque continenti, tribù, villaggi, città, stati. In tutti i casi si potrebbe comunque constatare che la fonte da cui scaturiscono l’innovazione e il cambiamento è costituita da un nuovo paradigma culturale elaborato dalla classe sociale emergente, costituito da una originale fusione di scienza ed arte: da una nuova visione e da una conseguente diversa azione sul mondo. Mi permetto, però, qui, di accennare solo ad un caso: l’emergere e l’affermarsi della classe borghese sulla aristocrazia feudale.
E’ vero che solo con la Rivoluzione francese si rende visibile il trapasso del potere politico-istituzionale dalla aristocrazia alla borghesia; ma tale evento era già pienamente germinato a partire dalle esperienze comunali in Italia (e simili nel resto d’Europa), ed il Rinascimento italiano non aveva fatto altro che suggerire e suggellare, con la applicazione sistematica della prospettiva nella configurazione architettonica ed urbanistica dello spazio, e nella rappresentazione della realtà nelle arti visive, una visione mercantile del mondo. Il paesaggio feudale, dagli spazi piatti e indefiniti, e reso spirituale dai “fondi oro” della pittura medioevale, diviene, ora, paesaggio laico, misurabile, funzionale alla produzione e ai commerci. Geometria e arte trovano così una vincente combinazione a formare una cultura progressista che, se tende a soppiantare l’egemonia della classe aristocratico-feudale, non muta affatto, se non nei modi della produzione e dello sfruttamento, le condizioni delle classi subalterne. Le successive scoperte scientifiche, con l’approccio metodologico sperimentale di Galileo e lo sviluppo del calcolo infinitesimale nella seconda metà del ‘600, ai quali corrisponde, non a caso, nelle arti e nelle lettere, la rivolta manierista e poi barocca, vanno a configurare idealmente un paesaggio sferico, tridimensionale, che ridefinisce lo spazio agibile verso la terza dimensione, verso l’alto: un teatro di luoghi ora anche celeste, cosmico, tendenzialmente sconfinato, che prelude alla volontà del capitale di assoggettare al principio del profitto l’intero creato.
Tra la seconda metà del ‘700 e i primi decenni dell’800, con l’Enciclopedia di Diderot e D’Alambert, l’opera immensa di von Humboldt, ed il Romanticismo (Caspar Friedrich docet), fenomeni culturali che costituiscono l’apice del pensiero progressista borghese, si afferma definitivamente il concetto di paesaggio, ed è un concetto “forte”, in grado di riassumere vita e visione in una unica dimensione fisica e spirituale che fonde lo spirito imprenditoriale capitalistico, tutto misura e mercato, con l’idea di Stato-nazione e con una nuova sensibilità estetica di impronta tecnico-scientifica. E, nel paesaggio borghese, popolo e patria diventano, ideologicamente, le linee di confine entro le quali le contraddizioni sociali vengono incanalate e costrette.
La fotografia fin quasi dalla sua invenzione, ed in particolare col perfezionamento di materiali e processi tecnici che ne faciliteranno la produzione e la diffusione, si troverà in prima linea nel corrispondere a questa concezione borghese di paesaggio. E’ tuttavia innegabile il contributo da essa fornito, a fianco delle scienze positiviste, alla conoscenza del territorio, o, per meglio dire, dei diversi paesaggi nazionali, e alla educazione e al diletto popolare. Basterebbe ricordare la storica Mission Héliographique (1851) sul primo fronte, e le pubblicazioni dell’editore fotografico Blanquart-Evrard (dal 1851) nell’altro.
Dalla seconda metà dell’800, con l’affermarsi della grande industria meccanizzata sopravviene la necessità per la classe borghese di intensificare via via il controllo sociale sul proletariato che si va organizzando in maniera antagonistica; e ciò impone un processo di differenziazione funzionale del sistema culturale in direzione di un affinamento, di una specializzazione, della strumentazione ideologica. Ormai esauritasi la spinta innovativa del nativo connubio borghese arte-scienza che aveva caratterizzato il lungo percorso intrapreso dalle borghesie nazionali verso la conquista del potere politico-statale, con il positivismo la scienza si istituzionalizza e si frammenta in discipline improntate al pragmatismo, mentre nelle arti incominciano a prevalere l’accademismo e le rappresentazioni di genere. In questo contesto culturale, alla fotografia viene assegnata una duplice funzione: da un lato, quella di ancella delle scienze positiviste, col compito di costringere visivamente il reale (il presunto incontrovertibile reale della fotografia) entro la struttura sociale vigente, riducendo il territorio-mondo, e le sue infinite possibilità creative e di relazione, ad un insieme di paesaggi-merce inventariati e catalogati per genere ed utilità economica; dall’altro quella del diletto e dello svago.
Ma, per fortuna, l’arte, la vera arte, non si piega mai all’ideologia.
Villa Liccer, San Fior, Conegliano (TV) mag 2020 © Corrado Piccoli
Nel mio Fini & Confini. Il territorio nell’arte fotografica (Campanotto Editore, 2018) ho provato a riscrivere la storia della “fotografia di paesaggio” dal versante, ormai abbandonato dalla cultura borghese, del dissenso e dell’innovazione; il quale corrisponde ad un approccio metodologico realmente scientifico alla realtà, o, per meglio dire, ad una ricombinazione aggiornata di arte e scienza basata sull’analisi/intuizione delle laceranti contraddizioni del sistema socio-economico capitalistico.
Individuavo nel mio libro quattro diversi atteggiamenti critico-creativi emergenti nell’arte fotografica da quel versante: l’astrazione dal reale verso la forma pura; l’approccio sistemico alla realtà; le visioni affettive (il tragico e il cinico); e la fotografia concettuale.
In tali atteggiamenti rintracciavo alcune comuni qualità che rendono un manufatto (ed anche la fotografia) un’opera d’arte: passione per la verità, partecipazione attiva, esuberanza regolata dallo stile, divertimento.
Se si studia con la necessaria attenzione (con passione) la produzione dei grandi artisti della fotografia del territorio quali, ad esempio, il Marville del progetto sull’arredo urbano di Parigi (1861-1878 ca.); l’Emerson dei Marsh Leaves (1895); Edward Weston con i suoi patterns naturali come stratificazione di un tempo sociale (lezione che farà poi propria meravigliosamente Mario Giacomelli); Jacob Riis con la sua indagine tra gli Slums di New York (How the Orher Half Lives: Studies Among the Tenements of New York, 1897); Lewis Hine, testimone di un paesaggio industriale che, ancora nei primi decenni del ‘900, non esita avidamente a sfruttare il lavoro minorile; Jean Painlevè (ingiustamente oggi dimenticato) con le sue creature marine (nel periodo tra le due guerre); Walker Evans del progetto FSA, e i suoi “allievi” più dotati, Robert Frank e Lee Friedlander; Ed Ruscha con i suoi irridenti ed inutili libretti di inventari urbani e suburbani; e, ancora, i fotografi della New Topography, con in testa Lewis Baltz e Stephen Shore; Allan Sekula con la sua precoce denuncia (il suo Fish Story è del 1995) dei guasti di un capitalismo globalizzato; sino alle punte più avanzate della ricerca fotografica in Italia a partire dal secondo dopoguerra, e tra questi, Ugo Mulas, Luca Maria Patella, Luigi Ghirri, Mario Cresci, Franco Vaccari, Guido Guidi, Paolo Gioli; si scoprirà come in essi l’arte si combini sempre con una conoscenza ed una strumentazione scientifica di avanguardia, e come la tecnologia, lungi dal divenire in essi apparato di controllo sociale, venga ricombinata e rivolta all’innovazione.
Infine, è questa la fotografia che vogliamo: una fotografia che sappia sconfinare oltre i paesaggi della norma e dell’abitudine, e che prefiguri, dall’interno della dialettica sociale, un territorio libero, vivibile e creativo per tutti: una fotografia innovativa, una fotografia militante.
Dionisio Gavagnin, (Venezia 1950), Dottore in Economia e Commercio, ha una lunga esperienza lavorativa come dirigente in grandi aziende multinazionali italiane ed estere. Assieme all’insegnamento universitario e manageriale, ha da sempre coltivato l’interesse per la letteratura, l’arte moderna e contemporanea e la fotografia. E’ autore di raccolte di poesia e di saggi con Campanotto Editore ( di cui Homini &Domini, il corpo nell’arte fotografica e Fini & Confini, il territorio nell’arte fotografica). E’ autore di numerosi saggi e collabora fattivamente con importanti riviste d’arte. Ha curato negli ultimi anni varie esposizioni artistiche importanti.