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"Memorie,Sentieri, Vajont" - Due giornate di studio

date » 29-05-2024

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tags » cecchinato, battistella, oddone, geologia, fotografia, studio, vajont, erto, frana, diga, fotografi, belluno, longarone,

Memoria, sentieri, Vajont

25 e 26 maggio 2024
La serena inquietudine del territorio
Due giornate di studio sui territori della tragedia del '63
Qui il bando per chi voleva partecipare


Sulla frana del Vajont - © G. Cecchinato 2024


Uno degli obiettivi de “la serena inquietudine del territorio” che mi sono prefissato di raggiungere, riguarda lo sviluppo e la ricerca in fotografia, sopratutto per ciò che riguarda l’analisi dei territori veneti.
Se da un punto di vista, con il magazine che produco assieme all’aiuto di Alessandro Angeli ed il supporto dell'Ordine degli Architetti di Venezia, diamo visibilità ai progetti di autori vari che si impegnano a raccontare il Veneto; dall’altra cerchiamo di trasmettere un metodo ed una modalità di fare fotografia che riteniamo consona alla nostra contemporaneità.

Ci sembra che, per migliorare queste sensibilità, viene utile divulgare il confronto, gli incontri e la cultura fotografica assieme all’apprendimento di nuove materie collegate, per cercare di sviluppare al meglio nuovi progetti di indagine.


Polaroid su roccia di frana - © Ketty Domesi 2024



In queste due giornate nella zona di Longarone abbiamo guardato con stupore lo svelarsi magico delle ere geologiche tramite la competenza di Emiliano Oddone (geologo di Dolomiti Project e consulente Unesco), che ci ha fatto capire il perchè, assieme ai vari passaggi evolutivi, si è arrivati alla tragedia. Non tramite le storie degli uomini, colpevoli di avidità e ricerca di profitto, ma sopratutto tramite gli eventi accaduti in milioni di anni, fin da quando tutto era Pangea.

Poi, tramite lo sguardo di Gianantonio Battistella abbiamo potuto unirci alla sua ricerca della struttura e della sovrastruttura, organizzando i punti di vista: quello “esplorativo” e quello “dialettico”.
A quest’ultimo siamo più riconoscenti, visto il suo essere “magico e ambiguo”, capace di di coesistere tra il visibile e gli ordini diversi dell’immaginazione, capace di celarsi tra gli interstizi che si nascondono tra i diversi scenari dell’umanamente osservabile.



© Alessandro Angeli 2024


Il gruppo di partecipanti, provenienti da varie parti d’Italia, era eterogeneo, di formazione ed approccio al media. Chi digitale, chi analogico, chi entrambi, chi basato sullo sviluppo istantaneo. Anche lo skill era diverso ma nonostante queste differenze, lo svolgimento e la sintesi finale apportata, coralmente, è apparsa positiva e accrescitiva per ognuno di loro, e di noi. Cosa di non poco conto, che mi porta a pensare che l’esperienza sia da ripetere e migliorare.

Qui allego di seguito una delle esperienze ... e anche qualche scatto dei partecipanti.

Giovanni
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Tra i luoghi del Vajont
di Anna Zemella


© Anna Zemella 2024



“La mia è la voce di chi solitamente giunge in certi luoghi sull’onda di un’emozione estetica o spinta da un immediato interesse alla vita di chi li abita e alle tracce del loro vissuto.

 Ne nasce una fotografia che è frutto dell’intuito e della partecipazione emotiva e talvolta nel tempo matura in un progetto. 

E’ la modalità a me più consona ma che so essere rischiosa, perché quei ‘paletti di metodo’ che sempre ci sono suggeriti, possono essere in tal modo precari e oscillanti, creando interferenze e incoerenze nel lavoro fotografico. 

Proprio perché consapevole di questo, mi sono unita alla ricerca del gruppo LSIDT, pur rischiando di perdere quel diretto coinvolgimento che mi dà carica nell’avvio di un progetto ma conscia che ne avrei sentito beneficio nel costruire un mio metodo fotografico.

 Come ci hanno sottolineato i relatori, infatti, non si tratta di aderire a un linguaggio unico e universale, che per fortuna non esiste, ma di lavorare per costruire con maggiore consapevolezza il proprio.

 Lunga premessa per dire che in queste giornate di studio poco ho scattato ma molto ho imparato. 




© Vito Renò 2024


Gli elementi che hanno sotteso queste giornate sono stati la profondità e l’ampiezza del tempo, dello spazio, della comprensione: il vertiginoso tempo  geologico, di cui così chiaramente e appassionatamente ci ha parlato Emiliano Oddone; la profondità del suolo sotto di noi  con i tumultuosi sconvolgimenti del drammatico passato; la profondità delle riflessioni e dello sguardo di Gianantonio Battistella, nella sua relazione preparatoria e nel lento procedimento per la creazione dell’immagine con il banco ottico, una volta scelta con cura l’inquadratura e il ‘punto di ripresa’.




© Ketty Domesi 2024


In questa dimensione di ‘profondità’, i luoghi di cui tristemente si era sentito, letto e a volte studiato, hanno risuonato in modo diverso ed ogni traccia e ampio profilo hanno acquisito una forte e drammatica consistenza.

 Non un paesaggio da guardare, ma da capire e sentire attraverso la consapevolezza. La doverosa premessa per un buon progetto fotografico che si volge al territorio. Lentezza e profondità per giungere all’attimo dello scatto, all’unicità dell’immagine, questo il fascino e il valore di tale percorso.

 Un’ottima esperienza dunque dovuta anche alla qualità del variegato gruppo di studio, composto da chi  non considera la fotografia mero passatempo ed è scevro da protagonismi e supponenze. 

Compagni con cui si è giocato e scherzato tra un discorso serio e l’altro, complice la buona tavola, il buon vino e la sapiente organizzazione”.




© Sheila Bernard 2024



© Francesco Munaro 2024



© Federico Galli 2024



© Carlo Chiapponi 2024



© Santina Pompeo 2024



© Antonio Barbini 2024





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La serena inquietudine del territorio - Giovanni Cecchinato - All rights reserved - © 2024

Di città in città di Alessandro Pagni

date » 25-01-2022

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tags » Alessandro, Pagni, Città, serena, inquietudine, veneto, zero, topography, topographics,

Articolo apparso sul Numero Zero di dicembre 2020

Di città in città
Riflessioni e appunti sul ruolo della fotografia nell'analisi dei centri urbani
di Alessandro Pagni



Boulevard du Temple Louis-Jacques-Mandé Daguerre (1838)

Le città sono il palcoscenico per eccellenza delle azioni umane, il luogo dove passa la storia e le cose accadono. Anche in contesti apparentemente sterili dove non c'è traccia di vita, le strade e i musei, i grattacieli e la sporcizia, la segnaletica, il vandalismo, l'arte e la pubblicità, sono la più tangibile emanazione dell'esistenza dell'animale uomo. Il punto più alto e al contempo il più basso dello slancio evolutivo (fatta eccezione per le passeggiate nello spazio).
Il mondo della fotografia ha sempre guardato alla città come l'ecosistema per eccellenza in cui indagare le possibilità del mezzo e sviluppare linguaggi inediti.
Il modo migliore per approcciarsi a un argomento tanto ampio (o quantomeno il modo che io ho trovato più congeniale) è prendere in mano una fotografia (magari la prima in assoluto che ha registrato l'interazione fra l'uomo e la città) e vedere dove ci porta, provando a saltare quasi per associazione d'idee, per suggestioni, da un'immagine a quella dopo aggrappandosi ad appigli sottili, seppur sicuri, come un primate che si sposta da un ramo all'altro cercando di non cadere.
È il 1838, più o meno sei mesi prima che venga ufficializzata e poi regalata al mondo, una delle scoperte più importanti della modernità. Siamo sul Boulevard du Temple a Parigi, da una finestra aperta Louis-J.-Mandé Daguerre impressiona su una lastra di rame argentato un generoso scorcio cittadino. I palazzi si spingono compatti verso il cielo con i comignoli che sembrano dita puntate in su a indicare le nuvole. Ovunque si contano porte e finestre, alcune serrate, altre spalancate, in ogni caso varchi, che danno modo di scrutare fuori o che si lasciano guardare all'interno. Gli alberi costeggiano la strada, correndo paralleli lungo il marciapiede, dando all'immagine, altrimenti statica, un certo qual senso di moto.
Il dettaglio c'è già tutto ed è stupefacente. I tempi di posa invece sono lunghi, ancora dannatamente lunghi per quello che il futuro del procedimento promette (congelare l'attimo, bloccarlo in una sospensione eterna), perciò il traffico nervoso e sovreccitato di gambe, zoccoli, ruote di carri e carrozze , che normalmente affollerebbe il viale a quell'ora del giorno sembra confinato in una dimensione parallela.
Resta però un indizio (perché la fotografia fin dal primo momento si rivelerà un insostituibile setaccio, a maglie sempre più strette, per la selezione di dettagli) di quella vita che dovrebbe brulicare e di fatto è assente: la sagoma imperfetta, poco più di una traccia confusa (ma comunque una traccia) di un uomo con una gamba alzata e di un altro individuo seduto che si sta affaccendando alla base di quella gamba. E qui, immediatamente, nella prima fotografia del primo uomo mai fotografato dentro al suo contesto, si intrecciano questioni che porteranno molto lontano.
Prima di tutto questa capacità innata della fotografia, che inizialmente è dovuta solo a limiti tecnici, ma poi diventerà una questione cruciale, di raccontare nello stesso scatto, quindi nella stessa frazione temporale, il paradosso della presenza assente (o dell'assenza presente se preferite), del far sentire chi siamo, del far sentire che ci siamo stati, proprio con il semplice “non esserci”.
Nel caso del Boulevard du Temple, come abbiamo detto, l'assenza è data da forti limiti nelle tempistiche dell'esposizione: le persone ci sono, non le vediamo, eppure in quel momento preciso sono lì (è la fotografia che le omette non la realtà) ciascuna con la propria traiettoria di vita che la camera oscura non è riuscita a imprimere sulla lastra.
Diverse le ragioni dietro ad altre assenze (che un po' somigliano al povero condannato a morte Lewis Payne fotografato da Alexander Gardner che come ci ricorda Roland Barthes «È morto e sta per morire»1) che hanno una fisicità, nella loro scomparsa, addirittura tangibile.
È il 1991, è finita da poco la terribile guerra civile libanese iniziata il 13 aprile 1975 e conclusa con un bilancio pesantissimo fra morti e sfollati. Gabriele Basilico viene chiamato a Beirut insieme ad altri fotografi dalla scrittrice
Dominique Eddé per prendere parte a un progetto di documentazione degli effetti distruttivi del conflitto sulla capitale. Fra gli scatti di questo dolente reportage, uno in particolare (Rue Dakar. Beirut 1991) mi ricorda il Boulevard di Daguerre: anche qui la ripresa viene effettuata dall'alto, (probabilmente) da una finestra che si affaccia su una strada circondata da palazzi. Le finestre sono qui occhi ciechi che non guardano altrove e nel buio non lasciano che si guardi dentro. Il silenzio è totale (la questione dei “suoni nelle fotografie”, mi rendo conto che è un discorso soggettivo e apparentemente delirante, ma chi potrebbe contraddirmi in questo caso), non c'è alcuno slancio vitale verso il cielo e l'assenza ha un peso indescrivibile, la somma di chi è morto e di chi ha perso la propria casa, come il negativo fotografico di una città abitata, “in fiore”, una “città che sale” e adesso resta un organismo senza vita, alla deriva.
Ancor più sconcertante lo sguardo di fotografi come Shomei Tomatsu, Yosuke Yamahata o Yoshito Matsushige su una Nagasaki da day after, completamente appiattita, ridotta a un tappeto di corpi e macerie nelle terribili giornate di agosto del 1945. Il dolore devastante di un'assenza che è data dalla sottrazione di quell'insieme di costruzioni e interazioni che chiamiamo “città” al deserto di ciò che è rimasto: scheletri come bizzarri templi consacrati al nulla che poche ore prima erano edifici e scheletri che spuntano come fiori carbonizzati, che poche ore prima erano persone.
Differente la visione di un Todd Hido che fa del “deserto” la cifra stilistica delle sue serie fotografiche più interessanti, ma per ragioni puramente estetiche. Pensiamo a Home at night dove l'assenza totale di forme di vita sembra cercare un conforto nelle sporadiche finestre “accese” che alludono alla presenza ma non la garantiscono, rendendo ancora più disturbante la sensazione di essersi persi dentro una notte eterna. Impressione che sembra trovare conferma in un altro lavoro del fotografo americano, Interiors, dove le stanze vuote si riducono a scatole senza anima, contenitori per esseri umani che sono misteriosamente spariti come dentro un horror-movie di zombie, lasciandoti un senso bizzarro di pericolo dato anche qui per “sottrazione”, proprio grazie a ciò che non si vede.
Atmosfere decisamente diverse, anche solo per la prossimità, per la familiarità che suscitano in noi, troviamo negli interni casalinghi che Guido Guidi racconta nella sua prima produzione artistica nata, in alcuni casi, dagli esercizi che Zannier gli assegnava al Corso Superiore di Disegno Industriale (1969-70)2.
Le immagini, sequenze fotografiche composte da scatti accostati fra loro in un formato che ricorda quello panoramico, raccontano una dimensione intima della città, fatta di un tempo che idealmente rallenta e di oggetti amici del quotidiano che si lasciano considerare con un'attenzione diversa, aiutati dal fascino di un frame particolarmente dinamico.
Ad esempio in uno dei momenti della serie dal titolo Cesena, 1970, un ragazzino seduto in cucina, chiuso fra il tavolo e gli elettrodomestici, gioca con qualcosa di non identificabile mentre una donna in piedi guarda lo schermo di un televisore che esce come un ectoplasma dal buio al limitare di quella che sembra una cucitura fra due scatti.
Viene automatico pensare ad altri interni cittadini, stavolta in America, argute intuizioni di Robert Frank o Lee Friedlander, dove le TV abitano da sole le stanze come entità dotate di una propria ragione, e sono finestre illusorie che ci danno l'impressione del viaggio tenendoci in realtà confinati tra quattro mura, comodi e docili.
La questione “finestra” è da sempre cruciale nel discorso fotografico. Abbiamo già analizzato la ripresa di Daguerre. Quante finestre si vedono da quella finestra! E la veduta di Niépce dalla finestra di Gras (1826-27)? E Talbot che nel più antico negativo che si conosca immortala la finestra della biblioteca di Lacock Abbey dall'interno (1835)?
La nascita del nostro medium ha un legame indissolubile, addirittura catartico, con questo elemento. John Szarkowski lo aveva chiaro in testa quando nella collettiva organizzata per il MoMA (del cui Dipartimento di Fotografia era il direttore), Mirrors and Windows: American Photography since 1960 (1978), lo ha posto come uno dei due poli magnetici del linguaggio fotografico e André Kertész molti anni prima ne ha fatto la cornice di un'immagine che in questa sede ci interessa molto (Terza Avenue, New York, 1937).
È il 1937, questa volta ci troviamo nella Grande Mela (New York e Parigi ci accompagneranno per tutto l'articolo in quanto luoghi chiave della storia dell'evoluzione fotografica), Kertész è arrivato da poco in città e immediatamente la imbriglia con l'obiettivo della sua fotocamera. Lo scorcio è di per sé iconico, c'è tutto quello che riassumerà l'essenza delle grandi metropoli statunitensi negli anni a venire: la strada che si perde oltre il campo visivo, la spinta dei grattacieli verso l'infinito e le persone in basso come formiche operose. Il tutto organizzato dentro una griglia razionale (tanto amata da Rosalind Krauss) che scompone gli elementi in modo che possano essere studiati singolarmente, dove però l'autore aggiunge qualcosa in più, legato alle proprie inclinazioni e nella parte alta a sinistra dell'immagine gioca ad autocitarsi: quella distorsione che fa pensare a una fata morgana dovuta alla calura estiva, o a un incendio propagatosi più in basso, richiama alla mente le sue celebri alterazioni di qualche anno prima e i giochi per niente innocui con gli specchi deformanti3.
E come lui altri si approcceranno al tema della città mediante la scomposizione e l'analisi di singoli dettagli che la abitano. Pensiamo alle vetrine di Eugène Atget in cui i surrealisti vedranno, a loro uso e consumo, ingressi per un altrove pieno di oscure promesse; o i graffiti, la pelle tatuata e tribale della città, raccontata da Brassaï nella Parigi degli anni '30 del '900, da Franco Vaccari in diverse città italiane nel 1966 con la serie Le Tracce e da chissà quanti altri ancora. O Luigi Ghirri, fra manifesti strappati, cartelli stradali, fondali e cartelloni pubblicitari a inseguire associazioni mentali e nuovi significati, fino a condensare “dal basso” il senso di interi agglomerati urbani nei loro simboli più eclatanti.
Uno degli scatti che mi pare rappresenti meglio il grado zero di questa “riduzione simbolica” è l'immagine del posacenere con il David di Michelangelo fotografato a Modena nel 1978 (dalla serie Still Life, 1975-79). Questa foto minima, di un oggetto insignificante, contiene un'icona dell'immaginario collettivo che nel suo farsi sineddoche grida ad alta voce, «Firenze!», mettendo sul piatto una riflessione importante (per quegli anni ma anche per il futuro) sulla sintesi e sugli stereotipi che accompagneranno l'indagine sui centri urbani e il ruolo che ha avuto la fotografia (insieme al cinema) nel plasmare l'idea che si ha di essi.
Torniamo ancora a New York, ma nel 1975. Questa volta ad accompagnarci c'è l'occhio di Joel Meyerowitz: un angolo di strada tagliato a tranci dalla luce del sole. L'insegna di uno store di Gucci a delineare il limite netto dove questo passaggio sembra indicare una bizzarra e parziale sovrapposizione fra due negativi. È l'illusione di un attimo data dal colore dei cappotti della coppia di passanti a sinistra e, in posizione diversa, delle due donne alla destra dell'immagine (come se nello stesso frame convivessero tempi differenti, un prima e un dopo). Basta un attimo per capire che era solo un gioco della mente e tornare, lievemente straniti, a una lettura lucida dell'insieme. La luce incornicia le due figure a braccetto, il vapore bianco le isola piazzandole su un palcoscenico immaginario con tutto ciò che serve a rendere il momento memorabile: macchina del fumo, riflettori, pathos. È la vita banale che di colpo si fa eroica, che diventa lo still di una pellicola cinematografica che non esiste.
Quello che fa Meyerowitz è ciò che dovrebbe fare qualsiasi bravo fotografo, dal momento in cui decide di avventurarsi in un mestiere del genere: scardinare la visione che trova sul suo cammino e imporne una totalmente nuova.
Impresa tutt'altro che semplice e non priva di insidie, me ne rendo conto.
Venti anni prima William Klein trattava New York con l'irruenza incontenibile di un ragazzino maleducato che non chiede permesso, ma si butta contro la gente, spintonandola e lasciandosi tirare via, come una molla che si allunga e ritrae senza mai perdere forza. Della città Klein raccontava le persone, il rumore, la moltitudine che non diventa mai flusso anonimo, ma vite su vite che traboccano personalità e intenzione.
Negli stessi anni Robert Frank percorreva gli Stati Uniti e col suo “retino” speciale catturava metafore a non finire, contraddizioni che imbarazzarono molti e un po' di immensa poesia di un paese mai pago di sé, mai in pace con i propri fantasmi. C'era la strada, il topos di tutta una generazione di artisti e un bianco e nero sporco e potente, che avrebbe fatto scuola negli anni a venire.
Con Meyerowitz, William Eggleston e Stephen Shore, irrompe il colore nel reportage urbano e cresce il desiderio di fare meno rumore, essere un po' meno epici, di abbassare leggermente il volume, stringere il campo su certi dettagli, raccontare non i protagonisti, ma gli attori secondari, vedere dove vanno, che vite hanno e lì edificare nuovi pilastri di senso.
Questi fotografi hanno cercato una simbologia alternativa che, nello specifico di New York, è fatta di spade di luce che tagliano impietose il fianco dei grattacieli, rendendo visibili solo per un istante i brandelli sfuggenti del loro scempio o di quel vapore corposo, al di là del quale la città potrebbe tranquillamente sparire e ormai significa quanto la Statua della Libertà, Central Park con la neve o il ponte di Brooklyn. Raccontano un'America che scivola sul cofano di un'automobile, si ferma a contemplare le ombre portate da una saliera e da una collezione di salse sulla tovaglia quadrettata di un diner, o si genuflette dinnanzi al tempio di una pompa di benzina.
In un certo senso è lo stesso impulso che spinse Luigi Ghirri a chiamare a raccolta gli amici Barbieri, Guidi, Jodice, Chiaramonte e molti altri ancora per l'avventura di Viaggio in Italia (1984): rifiutare l'immaginario da cartolina che assillava lo stivale, raccontare i non-luoghi, l'Italia che non si mette in posa ma semplicemente sta lì alla portata di tutti e registrarne il sincero, a tratti commovente, esistere.
Ma l'altra faccia della medaglia e se vogliamo la condanna di ogni innovatore è di scardinare qualcosa ormai diventato troppo ingombrante e obsoleto e sostituirlo con il presupposto di ingombri futuri.
Le città sono le vittime preferite di questo meccanismo.
Pensiamo, come racconta Nicoletta Leonardi nel suo Fotografie e materialità in Italia4, a quanto Franco Vaccari, con dissacrante ironia, si prendesse gioco, nello scritto di presentazione alla prima mostra di Ghirri (Fotografie 1970-1971), dei pellegrinaggi fotografici nella cittadina di Scanno da parte di dilettanti e fotoamatori italiani, dopo che vi era passato Henri Cartier-Bresson con il suo apparecchio. Oggi quell'ironia, che puntava a mettere al sicuro Ghirri dall'altra parte del fiume, rispetto alle visioni tanto calcolate e pittoresche del vate del “momento decisivo” e dal gregge senza fine che sapeva solo imitarlo (senza interpretare i suoi insegnamenti), gli si è rivoltata contro suo malgrado e la lezione di Viaggio in Italia è diventata “la maledizione di Viaggio in Italia” nei fotoclub e fra sedicenti professionisti, una vetta troppo alta e ripida per riuscire a scendere (un male dilagante per altro anche in contesti diversi della fotografia, se pensiamo agli infiniti tributi alla mai abbastanza compianta Francesca Woodman, o alla “sindrome di Giacomelli” per ogni amatore che incontri sulla sua strada un campo arato o innevato). Ed è un problema comune: anche io ho guardato il fumo bianco di New York, una volta arrivato là, con l'aspettativa certo appagata, di trovarlo come me lo aveva raccontato Meyerowitz e sono entrato nelle tavole calde cercando esclusivamente quello che mi aveva promesso Eggleston, senza lasciarmi stupire da qualcosa di inatteso, chiedendo solo conferme ovunque. È così che a un certo punto la fotografia svende la città e se stessa.
Una foto che amo molto, ci aiuta in questa riflessione: siamo nel 2000 all'Havana e Philip-Lorca dCorcia mette in scena un quadro di Hopper dei giorni nostri. I colori sono gli stessi di Nightawks, le luci addirittura più belle. Al bancone di un bar in una notte cubana madida di sudore si srotolano tutti gli stereotipi che una fotografia staged e smaccatamente glamour si può permettere. Siamo nella finzione dichiarata, squisitamente di superficie, molto piacevole e tranquillizzante. L'immagine è presa dal volume Eleven che raccoglie, dal 1997 al 2008, gli undici servizi fotografici realizzati dal fotografo in collaborazione con Dennis Freedman in undici diverse città.
Quello che traspare (ma qui l'intento è pacifico) è l'eccesso di connotazione, il carico spropositato di simboli identificativi del luogo, che generano l'effetto esattamente opposto: la spersonalizzazione. È come se ci allontanassimo progressivamente da una città tangibile, fatta di sfaccettature complesse e complicati intrecci, per prediligere una rassicurante distanza (fisica ed emotiva) dove sussistono solo quei simboli che la stessa fotografia ha contribuito a svuotare di significato e a ridurre a souvenir, trofei e spunte sulla lista di qualche turista.
Così dalle splendide visioni notturne di Luca Campigotto, tanto perfette da farle sembrare irreali, ai basculaggi filosofici delle Virtual Truths (1996-2002) di Olivo Barbieri, con le città che somigliano a plastici in cui perdiamo completamente le coordinate dell'umano, arriviamo a Mexico City (1996) di Stuart Franklin, immagine aerea di una città che scompare e si schiaccia contro l'orizzonte senza che se ne possano misurare i confini, anonima e opprimente, troppo simile a una distesa di circuiti elettrici.
Un'ultima suggestione.
In un mondo dove i simboli valgono più del loro referente, la città diventa visivamente e talvolta purtroppo fisicamente, fragile ed esposta ad attacchi. Il grado zero di questo genere di assedio, metaforico ma al tempo stesso spaventosamente tangibile, credo sia perfettamente rappresentato dallo scatto controverso di Thomas Hoepker, datato 11 settembre 2001.

Siamo in un parco di Brooklyn e in primo piano un gruppo di neyorkesi conversa (apprenderemo poi che in realtà anche loro erano sotto shock nonostante l'apparente tranquillità) sotto un cielo azzurro e sereno, mentre sullo sfondo una colonna di fumo nero avvolge il World Trade Center colpito dal più tristemente noto attacco terroristico della storia dell'occidente. Qui il fotografo, nel documentare la distruzione di un simbolo (le Twin Towers), con una composizione ineccepibile e un'attenzione al bilanciamento estetico dell'immagine da manuale, rinforza quello stesso simbolo che sta andando in pezzi, facendo sì che l'ingranaggio resti ben oliato e continui a fare il suo lavoro senza fermarsi mai.
09 novembre 2020
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